In un tempo antico, che dorme ormai nei nostri ricordi lontani, quando il torrente Alenta scorreva fragoroso ad alimentare i mulini sotto la Ripa, a Ponte viveva una donna di nome Flumena.
Era una giovane orfana. Aveva un viso d’angelo e sapeva far fiorire i gerani anche d’inverno. Viveva sola ai margini del Castello, lì dove giungeva il bosco frondoso del Monte e chi passava per il tratturello sentiva spesso profumo di dolci al miele che amava preparare per addolcire tisane e decotti o per profumare il poco cibo che aveva. Camomilla, menta, timo, origano, salvia o rosmarino facevano bella mostra di sé in ordinati mazzetti appesi al soffitto o alle pareti e insieme ad altre piante e fiori sembrava che abbellissero quelle quattro mura profumate di lavanda. Il suo buon cuore la faceva preoccupare per gli animaletti che a volte cercavano ristoro al limitar del bosco. Amava la compagnia dei gatti e i gatti erano amici discreti e silenziosi, così come quella dei bimbi che spesso andavano a bussare alla sua porta sapendo che avrebbero avuto sicuramente un biscotto o un dolcetto.
Era cresciuta con una vecchia che le aveva insegnato tutto ciò che serviva per sopravvivere. Sapeva quale erba era buona per fermare il sangue e quale corteccia sbriciolare per abbassare la febbre. In casa conservava flaconi, boccette e scatoline piene di elisir, oleoliti e unguenti… tante cose che la vecchia le aveva lasciato o le aveva insegnato a realizzare. Ogni tanto veniva qualcuno dal paese a chiedere quella boccetta per le verruche o la pomata per far crescere i capelli e lasciava delle uova, un po’ di carne, della verdura... Lei non aveva mai chiesto niente, soprattutto mai chiesto denaro, eppure quando andava al forno comune, giù alla Ripa, notava che le altre donne la evitavano e bisbigliavano alle sue spalle. Non riusciva mai a capire cosa dicessero davvero. Arrivavano frasi mozzate che parlavano di Janare che avevano visitato la casa di Compa’ Peppe, o che avevano intrecciato criniere ai cavalli nella stalla di Compa’ Giuann’, o che il figlio di Bettina, così bello, dalla faccia janca ‘e rossa, deperiva ogni giorno di più. Parole come ‘fattura’, ‘malocchio’, ‘janara’… si mescolavano al fragrante profumo del pane cotto nel forno a legna. Eh sì! Janara…come la famosa Gioconna, vissuta anni prima giù alla Piana tra le valli disegnate dai tumultuosi torrenti e i Colli ricoperti di boschi, e che qualcuno insinuava essere stata una sua antenata.
Le persone a volte hanno paura di chi non conoscono o di chi è diverso. E lei era così bella… con un viso d’angelo incorniciato da una riccia capigliatura ramata che poteva solo generare invidia e malocchio in chi la natura e la vita non gli avevano donato né grazia né conoscenza. La vecchia le aveva sempre detto di ignorare la gente del paese e fortunatamente a lei non dispiaceva la sua vita fuori le mura del Castello nei pressi del bosco. Voleva vivere in pace e lì ce n’era tanta. Era una vita dignitosa e serena e a lei piaceva.
Ma il suo destino si presentò un giorno d’estate nelle vesti di un bel giovane fermatosi a riempire la sua fiaschetta alla fontana in piazza.
Quel giorno era andata a prendere l’acqua di buon’ora come tutte le altre mattine. Preferiva andare presto per non incontrare troppa gente. Si fermò quando vide che c’era già qualcuno vicino ad una delle bocche con la faccia di lupo. Pensò che comunque avrebbe potuto usare una delle altre vasche e riprese ad avvicinarsi. Più si avvicinava, più osservava questa persona e più qualcosa si muoveva dentro di lei. Emozioni nuove di cui la vecchia non aveva fatto in tempo o non aveva voluto parlarle. Quel giovane così vestito bene e pulito, era la prima volta che lo vedeva. Forse era uno straniero. Aveva movenze forti e sicure, non era magro e curvo come altri giovani provati dal duro lavoro nei campi. Aveva i capelli così scuri da sembrare li avessi tolti alla notte. Improvvisamente uno sguardo misto a stupore e sicurezza agganciò il suo finché lei, sentendo il sangue salirle fino alle guance, abbassò la testa e si fermò come imbambolata. Anche il giovanotto era rimasto colpito da questa fanciulla apparsa silenziosa e leggera, quasi fosse emersa dal bosco da dove veniva, ma appena si riprese, memore delle buone maniere imparate in città, si offrì di aiutarla a riempire la ‘langella’. Flumena, imbarazzata e impacciata, accettò ma subito dopo corse via come se fuggisse da chissà quale pericolo. Ed in effetti, quel giorno, un grave pericolo si era insinuato in lei.
Ogni mattina si incontravano presto alla fontana, parlavano e si raccontavano delle loro vite. Nicola, figlio del protomedico don Andrea, le chiedeva delle erbe e a lei non sembrava vero che qualcuno, oltre alla vecchia, fosse curioso di conoscere le virtù delle piante. Nicola stava studiando per prendere il posto di suo padre e pensava che le erbe potessero essere altrettanto utili quanto i salassi con le sanguisughe. E così alla fontana giorno dopo giorno, anfora dopo anfora… i due si innamorarono. Ma una mattina, donna Cuncetta li vide parlare da soli con quella familiarità che tradiva i loro sentimenti e corse allarmata dalla madre di Nicola. Donna Maria si precipitò in piazza e con una scenata richiamò il figlio e lo mandò a casa, poi afferrò Flumena, rimasta lì stranita, per i bei lunghi capelli sciolti, la strattonò fin fuori dal Castello e lì la lasciò urlando: “Brutta Janara, stai lontano da mio figlio o ti faccio rinchiudere nelle sette grotte!
Flumena, invece, tornò alla fontana il giorno dopo e quello dopo ancora e poi ancora e ancora, ma Nicola non tornò più. Nicola, era stato allontanato di corsa quel giorno stesso, accompagnato da uno zio a Benevento che lo avrebbe portato con sè a vendere mantelli di lana lungo i tratturi, così da non poter ritornare mai più a Ponte.
Una mattina di fine ottobre, quando l’autunno porta la nostalgia nel cuore e con le foglie fa cadere le speranze, Flumena alla fontana incontrò donna Maria che con disprezzo l’apostrofò: “brutta Strega, pensavi di poter usare le arti magiche su mio figlio? Senza di esse Nicola non ti avrebbe mai voluta: sei brutta, sei orfana e sei povera!” Poi prese fiato e aggiunse con compiacimento: “Ma ora non potrai più niente. Ora finalmente ha incontrato una persona per bene, una donna adatta a lui e presto si sposeranno.”
In quel momento, come se fosse stato un cristallo di rocca, il cuore semplice di Flumena si spezzò. Nicola l’aveva abbandonata, aveva scelto un’altra donna. Rimase lì immobile, come una pietra eretta in mezzo al dolore e mentre saliva la nebbia dal fiume in quella fredda mattina d’autunno, si fece essa stessa nebbia e vento. Quando, infine, in tarda mattinata il sole fece capolino, lei era sparita, nessuno seppe più niente di lei o semplicemente nessuno volle sapere più niente di lei.
Eppure non l’hanno dimenticata.
C’è chi dice che di notte il suo spirito vaga ai crocicchi sperando di incrociare il cammino di Nicola lungo i tratturi; chi dice che ha trovato pace nelle sette grotte e chi di notte vola dalla Ripa ai mulini giocando coi gorghi dell’Alenta. Qualcuno giura di aver visto un’ombra fugace vicino alla fontana e altri una presenza sfuggente nei vicoli, c’è chi dice addirittura che insieme a Gioconna volano insieme al Sabba …ma non c’è da aver paura, soprattutto se sei un gatto o un bambino. Epperò se sei un adulto lascia un biscotto profumato tutto per lei e Flumena non ti farà alcun male.
[Riadattamento di Laura Coletta su testo predisposto da Cristian Pica]
Gioconna è la protagonista del racconto scritto dal prof. Angelo Scarinzi sulla base di alcuni brani orali raccolti in zona a tema Janare
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